Le strade che cantano

Incontro con Theresia Bothe

 

Serena Marcone

 

"La musica si presta in tantio modi all'impegno sociale, modi che sto scoprendo man mano che pasa il tempo, anche nelle situazioni più inpensabili"


 

Theresia Bothe è una cittadina del mondo. È una musicista internazionale: canta, compone, suona l’arciliuto e la chitarra. Parla 5 lingue e ha vissuto in diversi paesi. Da alcuni anni alla sua attività concertistica, che spazia dalla musica antica a quella popolare, si è aggiunta quella didattica ed educativa.

Ha incontrato il popolo delle strade del mondo e la sua vita si è arricchita di nuove relazioni e di nuovi amici. Ha tenuto laboratori di musica per bambini e giovani di strada del Guatemala; ha conosciuto la durezza e la violenza di Ciudad Juarez in Messico; ha incontrato le donne vittime di tratta sulle strade della costa adriatica. Per parlarci di tutto questo l’abbiamo incontrata durante un suo passaggio a Roma. “Cantare è sempre stata una parte centrale della mia vita. Gli studi musicali formali li ho iniziati tardi, ma è stato questo che mi ha portato sedici anni fa in Europa. Ho vissuto a Londra, in Germania, in Svizzera e in Italia. Mi sono specializzata in musica del primo barocco, ma non ho smesso di cantare altre cose perché, anche se la musica è divisa in stili, nella musica stessa non c’è divisione: ora scrivo anche canzoni e adoro ascoltare la voce delle persone che cantano con passione. Sono nata in Canada, mia madre è irlandese e mio padre è un incrocio, come me, ma principalmente tedesco. Sono cresciuta e ho frequentato le scuole in Messico. Nel 2003 ho fondato Music a Chance for Change (M-CC) perché credo che la musica abbia un ruolo nel cambiamento di cui la nostra società ha bisogno”.

 

Come dici, nella tua vita la musica è molto importante. Quando e come hai capito che poteva essere anche uno strumento di comunicazione sociale?

Credo di averlo pensato la prima volta nel 2000, dopo un concerto che ha emozionato fortemente il pubblico. Ho capito che non potevo abbandonare la musica, dopo averla studiata inizialmente per puro piacere personale. La musica si presta in tanti modi all’impegno sociale, modi che sto scoprendo man mano che passa il tempo, anche nelle situazioni più impensabili. Il quando e il come me li sta ancora insegnando l’esperienza, ma il desiderio che mi muove è antico: qualcosa che ho dentro da tanto tempo.

 

Con quali paesi sei entrata in contatto? Puoi raccontare brevemente qualcosa?

Nella mia vita sono stata in contatto costante con nuove culture. Il fatto di essere io stessa figlia di una mescolanza di culture fa sì che io non mi senta di appartenere esclusivamente ad una di esse. Dico questo perché non sento in modo concreto divisioni tra i paesi, almeno da un punto di vista umano. Ho lavorato sul tema dell’integrazione degli “stranieri”. Crescere in Messico mi ha fatto conoscere in modo doloroso problemi come razzismo, discriminazione e divisioni tra classi sociali. Suppongo che questo mi abbia portato ad attivare progetti nei luoghi in cui mi sono trovata e ad accettare proposte di alcune organizzazioni o persone per portare la musica in un ospedale o in un carcere, in una scuola o sulla strada o semplicemente in una conferenza. L’esperienza di un luogo si porta in un altro e così cresciamo nella tolleranza. I temi centrali per me in questo momento sono la tratta di esseri umani, in relazione al progetto “We’re all on the Road” (che ora è il titolo di un album di canzoni registrato in Italia nel 2010) e i ragazzi di strada dell’America latina che fanno parte del Mojoca - Movimiento de jovenes de la calle (di cui uscirà un album di canzoni chiamato “La Calle Canta”, realizzato in Guatemala nel 2011).

 

Hai conosciuto donne africane vittime di tratta. Come è stato l’incontro con loro?

Forte, ma anche semplice. Facilmente si può far male alle persone che sono ferite ed esser state vittime di tratta significa, in molti casi, aver perso la fiducia negli altri esseri umani. Un momento importante nel mio incontro con loro è stato quando mi hanno domandato perché fossi lì. Il fatto che non fosse un lavoro pagato, ma che la scelta era nata da un mio intimo desiderio, le colpì. Fu un momento importante di identificazione perché anche loro sono in cerca di una trasformazione personale. Mentre stavamo cantando insieme, non ho mai pensato a loro come “vittime di tratta”, ma come persone che possono esprimersi tramite la propria voce e condividere, in questo modo, parte della loro esperienza. Ho preso le loro parole, i loro desideri e ne ho fatto canzoni che poi abbiamo cantato insieme. Questo ha fatto sì che si identificassero con le canzoni, che sono dedicate a loro.

 

Un altro paese in cui hai portato il tuo amore per la musica è il Guatemala. Come è stato il rapporto umano e didattico con i bambini e i giovani di strada?

L’esperienza del Guatemala è indescrivibile. Queste persone che vivono sulla strada sono tanto vulnerabili e tanto forti, sono così piene di vita, di allegria e di tragedia che non ci sono parole per dirlo. Il fenomeno dei ragazzi di strada è così complesso che non si può in nessun modo astrarlo da tutto quello che accade in questa società in decadenza: sono il sangue che scorre senza nessuna colpa dalla ferita. L’incontro con Gerardo Lutte, fondatore del Mojoca in Guatemala, è stato uno dei più rilevanti nella mia vita e aver portato la musica nel Mojoca mi riempie di allegria; cantare con i ragazzi di strada, sul tema della strada, è parlare di verità senza intermediari.

 

Hai conosciuto persone molto differenti tra loro (giovani, adulti, uomini, donne). Hai avuto risposte diverse da loro nelle attività proposte?

Credo che le attività proposte vengano sempre dalle situazioni: non ho mai avuto un piano prefissato, non è possibile. C’è un proverbio, in tedesco, che dice: “Là dove si canta ti puoi fermare, perché le persone cattive non hanno canzoni”. Credo che cantare sia parte della nostra natura umana e sento che per questo, quando canto, non importa il dove. Le persone si identificano con me e poi, quando cantiamo insieme, noi diventiamo parte dello stesso paese, non importa se è Italia, Svizzera, Guatemala o qualunque altro luogo. Siamo parte di un mondo che dobbiamo trattare con cura. Credo anche che cantare le stesse canzoni nelle diverse parti del mondo crei un filo che unisce.

 

Quale progetto vorresti realizzare in futuro?

Non lo so, forse perché quello che ho fatto non era programmato; credo che prenderò le cose come vengono. Una cosa che mi pare essenziale è essere sempre supportata da un’organizzazione che si occupi delle questioni sociali in cui sono coinvolta. Non mi sento sola in questo percorso: credo che la musica sia solo parte di una rete a cui apparteniamo tutti, nella quale, però, ognuno ha il compito individuale di scoprire che cosa ha da fare.